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L’istante e l’eternità

    Recensione della mostra archeologica “L’istante e l’eternità”, Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano, Roma 2023.

    Dopo circa tre mesi di apertura, il 30 luglio si è conclusa al Museo Nazionale Romano la mostra L’istante e l’eternità. Tra noi e gli antichi. Promosso dal Ministero della cultura italiano e dal Ministero della cultura e dello sport della Grecia e organizzato dalla Direzione generale Musei e dal Museo Nazionale Romano in collaborazione con Electa, l’evento è stato ideato e curato da Massimo Osanna, Stéphane Verger, Maria Luisa Catoni e Demetrios Athanasoulis, con il sostegno del Parco Archeologico di Pompei e la partecipazione della Scuola IMT Alti Studi Lucca e della Scuola Superiore Meridionale.

    Qual è il nostro rapporto con i popoli antichi, le loro culture, la loro storia, il loro vissuto? Secondo i curatori della mostra si tratta di una relazione strutturatasi nel corso dei secoli lungo un duplice binario: la trasmissione culturale attraverso l’arte, la storia, la filosofia; e l’immedesimazione, ovvero il cogliere analogie tra le gioie e i dolori di persone vissute in tempi remoti e quelle che affrontiamo nel nostro quotidiano. Attraverso reperti archeologici che partono dal IV millennio a.C., si è inteso mettere in luce questo rapporto complesso fatto di persistenze storiche, fratture culturali, spostamenti semantici, idealizzazioni e riscoperte. Il percorso espositivo è stato concepito seguendo le linee interpretative proposte dai curatori. La prima sala, nella quale erano esposti i calchi di due vittime dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., era dedicata alla reinterpretazione moderna dell’antico. La trasmissione intellettuale era la protagonista della seconda sala (la rappresentazione del potere) e della terza (la rappresentazione del tempo e dello spazio). L’immedesimazione era invece illustrata nella quarta sala (la vita sociale) e nella quinta (la rappresentazione dell’individuo).

    La mostra è stata allestita nella splendida cornice delle Grandi Aule delle Terme di Diocleziano, riaperte per l’occasione dopo decenni di chiusura al pubblico, che ci si augura restino aperte anche in futuro. Sono state esposte opere dell’antichità greca, romana e di altri popoli italici, nonché manufatti medievali, moderni e contemporanei per un totale di 300 pezzi, molti dei quali di rara bellezza. Erano presenti ceramiche, mosaici, bassorilievi, dipinti su legno e su tela ma assoluta preminenza è stata data alla statuaria, dalle teste e busti di piccole dimensioni alle statue colossali. Vi erano reperti di recentissimo rinvenimento come il Carro cerimoniale, scoperto a Civita Giuliana nel 2020, o la Statua di personaggio in veste di Ercole, scoperta a Roma nel gennaio 2023. Altri pezzi erano esposti per la prima volta al pubblico, come la Statua di fanciulla di Santorini, o per la prima volta a Roma, come la Statua di guerriero, uno dei Giganti di Mont’e Prama (nell’ultima grande mostra sulla Sardegna antica, L’isola delle torri, tenuta al Museo Pigorini nel 2015 era presente una postazione multimediale che permetteva di osservare fotografie tridimensionali ad alta risoluzione delle statue rinvenute a Cabras, ma non le statue stesse). Un plauso alla scelta di includere reperti di diverse popolazioni italiche, come i Sardi, i Dauni, gli abitanti della Lunigiana, un corretto contrasto alla fallace narrazione che vede Etruschi e Romani unici creatori di cultura e storia del nostro Paese.

    Purtroppo, questo è quanto per le note positive, mentre molti sono i rilievi negativi. Dal punto di vista teorico non convince l’inclusione dell’immedesimazione tra i meccanismi costitutivi del rapporto tra modernità e antichità: che nel corso dei secoli l’interesse per i popoli antichi sia stato suscitato da una sensazione di vicinanza tra noi e loro perché le vicissitudini umane si somigliano attraverso le epoche, è un’idea che va bene per le chiacchiere dall’estetista ma non trova collocazione in un discorso scientifico. Sarebbe stato invece interessante approfondire le modalità di trasmissione culturale da un’epoca all’altra, analizzandone i processi, le motivazioni e gli esiti.

    Discutibili anche alcune scelte espositive. La mostra si apre nella prima sala con due calchi in gesso delle vittime dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. la cui presenza è proprio fuori tema: questi calchi sono ottenuti dalle impronte lasciate nei detriti vulcanici da vere salme, poveri corpi devastati da una catastrofe naturale, e non hanno nessuna attinenza con l’arte. Saranno forse utili alla scienza, che potrà fare delle scoperte analizzandoli, ma esporli al pubblico è un invito a un voyeurismo necrofilo senza nessun rispetto per i defunti dinanzi a noi. La presenza di questi reperti nella mostra sarebbe giustificata dall’idea orrenda che in quanto calchi essi siano una forma di rappresentazione dell’antichità.

    Inoltre, sebbene il tema della mostra sia dichiaratamente il rapporto tra antichità e modernità, c’è una differenza abissale tra le opere greche, romane e italiche e quelle posteriori: con qualche rarissima eccezione, i pezzi dal medioevo in poi non possiedono il carattere ieratico e il fascino di quelli antichi e accanto ad essi inevitabilmente sfigurano. E se questo è vero persino per un’opera di squisita fattura come il Busto di Cosimo de’ Medici realizzato da Benvenuto Cellini, lo è molto molto di più per la ceramica settecentesca di Ginori di Doccia, inclusa perché raffigura ninfe e satiri, ma che appare scialba e insignificante se accostata anche al più modesto vaso greco o etrusco, per non parlare dell’opera leziosamente autoreferenziale di Francesco Vezzoli, che sovrappone a un torso acefalo di epoca romana un proprio autoritratto piangente.

    Il risultato è purtroppo un bailamme di stili, popoli, culture, epoche, significati, livelli qualitativi, tra i quali è impossibile districarsi e non basta certo la schematica assegnazione delle opere in aule tematiche per proporre un discorso coeso. È una situazione già vista anni fa alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna con l’allestimento denominato Time is out of joint, che abbandonava ordine cronologico e rigore scientifico in favore di una fruizione senza alcun riferimento, considerata liberatoria. Con questa deleteria tendenza in ambito espositivo, il museo abdica alla propria funzione formatrice relegandosi in una dimensione superficialmente estetica: è il trionfo delle Galeries sul Museion, dei grandi magazzini sul tempio della cultura, dell’istante sull’eternità.

    Una nota di demerito anche al catalogo della mostra edito da Electa nel quale si è scelto di pubblicare quasi esclusivamente foto delle opere fornite dagli archivi dei musei di provenienza: fotografie non recenti, a bassa risoluzione e di piccole dimensioni, alcune con bilanciamento del bianco scorretto. Con tutto il rispetto per gli interessanti contributi testuali contenuti nel volume, chi acquista il catalogo di una mostra desidera ritrovare, sfogliandolo, le emozioni provate durante la visita. Vuole quindi trovare immagini fedeli, ad alta risoluzione e a pagina piena, delle opere esposte, non delle figurine.


    Le fotografie qui presenti sono la mia personale interpretazione delle opere che più mi hanno colpito tra quelle prive di protezione di plexiglas. Sono tutte antecedenti il III secolo d.C.